Articoli: FORSE OCCORRE CERCARE... IL FILO CHE LEGA

FORSE OCCORRE CERCARE... IL FILO CHE LEGA


Data: 31/12/2009
Ambito: Comitato Scientifico

Montagna: un contesto di apprendimento.  Approccio didattico alla montagna
A cura di Alessandra Gregoris – Operatore Naturalistico del CSC   “Forse, occuparsi di montagna è  un pretesto (o un’occasione) per parlare dell’uomo…” (M.A. Gervasoni)…un uomo che nei secoli ha creato sistemi di idee con cui ha rappresentato se stesso ed il mondo esterno per poi disfarli, mescolare i pezzi e riassemblarli. La natura sistemica della mente (tutte le discipline ormai ragionano in termini di sistemi complessi) non ci permette di scindere i circuiti che connettono la razionalità e l’emozione, la persona e il suo ambiente, il corpo e la mente. Ovvietà? Non proprio, se il fatto di parlare di approccio didattico alla montagna in termini di stupore, motivazione e sentimenti umani, può lasciarci giustamente perplessi e coglierci impreparati. Forse ci aspettavamo soltanto lezioni di botanica o di geologia, o un ricettario di strategie su come condurre i gruppi in gita naturalistica?
Ma che cos’è che ci spinge a cercare occasioni di formazione, se non la ricerca motivata delle ragioni del nostro modo di essere uomini oggi, in un ambiente da cui dipendiamo strettamente senza esserne spesso consapevoli, nel convincimento o nella speranza che si possa e si voglia cambiare, grazie alla maturazione di un nuovo atteggiamento culturale nei confronti del territorio?
L’Educazione all’ambiente è prima di tutto Educazione all’uomo, perché  è solo attraverso la presa di coscienza delle proprie motivazioni e dei propri comportamenti che può nascere la disponibilità ad orientare le proprie azioni verso la responsabilità e la cura dell’ambiente che frequentiamo.
Qualunque sia il nostro ruolo nella società, volenti o nolenti noi siamo sempre educatori più o meno consapevoli. I comportamenti di ogni singolo cittadino influenzano le scelte e le azioni soprattutto dei più giovani. Come operatori CAI, a qualsiasi titolo, diventiamo educatori ambientali per scelta e vorremmo, come obiettivo massimo del nostro impegno, diffondere più possibile un modo di andare in montagna (come in qualsiasi altro ambiente) che valorizzi una cultura dell’interpretazione, dell’osservazione attiva e del rispetto dei luoghi che frequentiamo. Detto questo, si modifica il modo di concepire ed impostare la formazione degli operatori: non si tratta solo di insegnare loro a conoscere l’ambiente naturale e a  rispettarlo, ma è urgente che tutti gli “educatori” siano formati alla comprensione delle realtà, nello specifico quella dell’ambiente alpino, dando loro diverse “chiavi di lettura” per interpretare tutte le valenze di un territorio (naturali, storiche, antropiche…). Di ognuno di questi aspetti può essere fatta una lettura pedagogica, al fine di utilizzarli come supporto di un percorso educativo finalizzato alla riscoperta di se stessi, dell’ambiente, e della propria capacità di rapportarsi coscientemente ad esso.Educare significa anche sperare nel cambiamento; è auspicabile cambiare perché la nostra non è l’unica maniera di essere uomini: essere responsabili significa assumere su di sé l’impegno di trovare nuove risposte. I sistemi non cambiano se non quando gli attori cercano di modificare se stessi e il loro rapporto con il sistema. Se è vero che, come afferma Saint-Exupery, “l’essenziale è invisibile agli occhi”, il punto è capire che cosa ci impedisce di vedere, e che cosa può fare l’educazione per modificare questo stato di cose.
Questa è educazione all’essenziale, e cioè a ciò che facciamo così fatica a vedere, a sentire dentro e fuori di noi, ma che pure è così importante. C’è qualcosa che va risvegliato, sia nei bambini e nei ragazzi di una generazione così frastornata dall’artificialità di suoni e immagini, così come negli adulti, che hanno subito in pochi anni l’accelerazione vertiginosa dei ritmi di vita, portata da un progresso che nessuno avrebbe immaginato. Perché proprio in montagna? Ognuno di noi ha una percezione personale di questo ambiente più o meno vicino a sè, più o meno frequentato e conosciuto. Sicuramente tutti abbiamo qualche idea, una suggestione, un ricordo, quando pensiamo alla montagna: uno spazio fisico immenso, maestoso, di fronte al quale l’uomo ha sempre avvertito un sentimento di reverenza, di fascino, di percezione dei propri limiti. Nel corso della storia la montagna è stata temuta, addomesticata, e infine dominata dall’uomo, ma non ha mai perduto la sua dimensione fondamentale: quella di evocare in chi la osserva emozione intensa.Porre attenzione pedagogica ai sentimenti, ai sensi e alle emozioni riguarda un’opzione metodologica, che può essere più o meno condivisa; io ne ho sperimentato le valenze, e  ho provato a suggerirne l’efficacia.Spesso noi guardiamo le cose, eppure non riusciamo a vederle; e quando vediamo, non sempre capiamo. Abbiamo bisogno di rieducare i nostri sensi, spesso assopiti da uno stile di vita dominato dalla fretta, dalla superficialità delle immagini e dei messaggi della comunicazione globale. L’educazione all’ambiente passa attraverso questa strada, sia che essa si rivolga ai ragazzi, sia che abbia come soggetti di apprendimento gli adulti.La montagna come  risorsa di questo percorso, universo di immagini da esplorare, metafora di una meta per raggiungere la quale non vi sono ricette ma sentieri possibili. Si tratta di trovare gli strumenti adatti per percorrere tali sentieri, strumenti di cui le pratiche didattiche tradizionali si dimostrano spesso carenti.
E allora si possono sperimentare strategie didattiche creative, coinvolgenti, basate prevalentemente sul gioco e sull’attivazione personale.L’ambiente montano si presta particolarmente a queste esperienze, come un laboratorio didattico all’aperto, ma anche come metafora da utilizzare nella comunicazione, come strumento linguistico e concettuale per leggere la realtà.Le due attività proposte sono propedeutiche ad elaborare altrettanti spunti di riflessione.
Il primo riguarda il nostro personale approccio alla montagna che, come di solito accade, è prevalentemente emotivo, e dunque riguarda quella che in gergo chiamiamo sfera psicologico-affettiva; essa viene messa in primo piano quando parliamo di rispetto, amore, assunzione di responsabilità verso l’ambiente. Il nostro modo di percepire l’ambiente condizione fortemente i nostri comportamenti e ciò che attraverso di essi trasmettiamo anche agli altri.
Il secondo ordine di considerazioni, che emerge dai risultati della seconda attività proposta, riguarda invece la sfera cognitiva, ovvero concerne l’ambito delle conoscenze dei vari aspetti fisici che compongono l’ambiente montano. Saper distinguere ciò che fa parte dell’ambiente naturale rispetto a ciò che è stato oggetto dell’intervento dell’uomo e saper riconoscere i vari elementi del paesaggio, comporta la necessità di costruirsi un bagaglio di conoscenze scientifiche che l’appassionato naturalista acquisisce attraverso la formazione. Una formazione che non è soltanto teorica e nozionistica, ma è anche capacità di interpretare gli elementi del paesaggio che ci circonda. Questa capacità richiede esercizio di lettura del paesaggio, ovvero applicazione delle conoscenze scientifiche al lavoro sul campo, cioè alla frequentazione attiva del nostro ambiente di studio.
Questo esercizio ci consente il passaggio tra quello che è il semplice sapere e guardare, al più complesso vedere e comprendere. Qui il cerchio si chiude. Dal sapere e guardare, facendo lo sforzo di imparare a vedere e comprendere, si giunge a quell’empatia ed amore per l’ambiente che diventa assunzione di responsabilità, nel senso di impegnarci noi stessi a tutelare e difendere il paesaggio e trasmettere agli altri ciò che abbiamo scoperto.
Ciò che noi facciamo nel CAI, concepito in quest’ottica e mettendo umilmente a disposizione le nostre competenze, vuole essere una proposta di ricerca mai esaustiva in un ambiente immensamente ricco, vario e complesso come quello montano, per leggerne i significati in chiave educativa. E’un ambiente emblematico perché estremamente fragile, che merita di essere conosciuto e apprezzato da tutti e preservato perché anche le prossime generazioni possano goderne.
La mia prospettiva: partire dall’uomo anziché dalla natura. Tale approccio, infatti, dovrebbe consentire di ritornare alla natura come uomini migliori, capaci cioè di mettere in discussione le proprie certezze, di comprendere e rispettare, attraverso la peculiarità di un ambiente, quello alpino, che per quanto frequentato ed esplorato offre sempre all’uomo un termine di confronto, di riflessione e, forse, di riconoscimento 



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